Un ricordo di Ettore Canepa
di Bruno Marengo

Anni fa, dovendo scrivere una testimonianza su Ettore Canepa, in occasione di una sua mostra, iniziai sostenendo che vi sono cose che non sono scritte nelle convenzioni che regolano i rapporti tra le persone. Infatti, non avendo gli strumenti per dare un’interpretazione critica della mostra, mi affidai alla sensibilità per alcune considerazioni, intese soprattutto a ricercare nelle sue opere ciò che riconduce all’uomo.

Feci una premessa riferita al rapporto che intercorreva tra di noi. Una conoscenza di vecchia data, la nostra, non diversa da quelle che legano tra loro le persone che sono partecipi della stessa vicenda quotidiana di paese. Una conoscenza che si è aperta, ad un certo momento, alla frequentazione, ad intense riflessioni ad alta voce che accompagnavano le nostre passeggiate sul lungomare di Spotorno. Non era certo la risaputa, ripetitiva cronaca cittadina con i suoi bisbigli, con le consuete variazioni del tempo e delle stagioni ad occupare i nostri pensieri. Era uno scambio di comunicazione che ci calava in una dimensione sospesa, come d’incanto. E che faceva da sfondo al nostro ragionare sull’essenza più vera ed intima delle cose; vale a dire, così come esse sono e non come appaiono. Una volta, in cui in una limpida mattinata di gennaio si intravedeva la Corsica, mi disse che sembrava una cattedrale di roccia che usciva dal mare, con le sue guglie, le grandi bifore. Io, partendo da quella immagine fantastica, scrissi il romanzo “La cattedrale di Apenac” ed Ettore così concluse una delicatissima postfazione: “Teatro di questa storia è Spotorno, paese mitico, dove può accadere tutto e il suo contrario senza stupire, ma dove l’atmosfera poetica è fortissima e l’orizzonte tra Capo Noli e l’Isolotto ha uno strano effetto finestra che fa sognare impossibili eventi. La Cattedrale è il simbolo di questa magica attesa, che dà speranza, certezza, conforto”. Realizzò anche la bella copertina del libro che raffigurava una cattedrale, piena di luce rosso ocra, che appariva all’orizzonte.
Un rapporto, il nostro, che si è trasformato in un’amicizia fondata non sugli aspetti appariscenti delle rispettive individualità, ma sulle risposte, reciproche “rispondenze”. Un’amicizia che non ci impediva, a volte, di lanciarci in discussioni, anche aspre, sulla vita politica, amministrativa, culturale. Discussioni che non lasciavano traccia perché il giorno dopo eravamo pronti a ricominciare. Non mancavano anche le battute e gli sfottò da bar con comuni amici. E’ stata un’esperienza, la nostra, importante, coinvolgente, di quelle che lasciano il segno. Ogni anno (in collaborazione con il Comune), con sua nipote Norina e con Giuliano Meirana, il nostro amico poeta, organizzavamo degli eventi culturali, che vedevano l’attiva partecipazione di amiche e amici, con l’esposizione dei suoi quadri, a volte anche delle sculture di Mauro Fiorito; con stacchi musicali dei chitarristi Pino Briasco e Riccardo Pampararo; con letture di poesie e di brani di prosa. Anche in quelle occasioni le discussioni non mancavano, ma poi, quando tutto era filato per il verso giusto, nei suoi occhi c’era la gioia di un bimbo.
Ettore è stato un artista di grande talento che ha cantato in pittura, con i suoi colori ed il suo tratto inconfondibile, il paesaggio, l’anima, della nostra regione e del nostro paese, nello spirito di una infaticabile ricerca. Una persona schietta e diretta, senza mezzi termini nella polemica, ma anche dotato di un contagioso entusiasmo propositivo. Un ligure a tutti gli effetti.
Nella sua vita, lo straordinario sodalizio, così affettuoso, unico, particolare, con la moglie Tilde, una cara amica.

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Andai a trovarlo, pochi giorni prima che ci lasciasse, all’Ospedale di Pietra Ligure. Faceva freddo e mi ero messo una sciarpa rossa di lana. Appena mi vide mi apostrofò con la sua ironia tagliente: “Ti é vegnüu a tiàme u belìn cun quella scerpa?”. Anche quello era Ettore, un caro amico.

Bruno Marengo