Il mio natale

l Natale mi riporta alla mia vita di fanciullo, al Natale 1927, quando avevo sette anni e frequentavo la seconda elementare. Indossavo zoccoli di legno sovracoperti da tela cerata e con sotto, inchiodato, uno strato di gomma da bicicletta, per salvaguardarne la durata. Vestivo leggero, non avevo un cappotto, il tutto camuffato da un grembiule nero, che copriva il disagio. Era una condizione comune ad altri bambini, a me mancavano anche libri e quaderni. Ero in continua lotta con il freddo, il vento, la pioggia. Psicologicamente non provavo sofferenza: la moda era inesistente, dominava il bisogno. La mia condizione era, del resto, comune ad altri compagni e i più fortunati non si accorgevano dei nostri problemi, nessuno dava importanza all'abbigliamento, come simbolo. Nessuno si sarebbe sognato di far pesare una qualche differenza. Ma era a Natale che sentivo nel mio animo una inconscia mortificazione: non avevamo l'albero di Natale. Ne parlai con mio padre che mi fece: “Hai salute, intelligenza, e ti senti diverso perché ti manca l'albero di Natale? Quanti vi rinuncerebbero, per la salute che hai tu". Ragionamento inconfutabilmente giusto, ma non convincente per un bambino. Mio padre soleva anche dire che :"Vivere coerentemente consiste nel non venir meno ai principi della giustizia e solidarietà sociale". La mente di un bambino gestisce la logica secondo una propria razionalità, mio padre non aveva tempo per cercare di capire la mia. Il suo senso di dignità mi bloccava e mi obbligava al silenzio. Non mi restava che rimuginare sulle sue risposte: "Sono mortificato di non poter soddisfare il tuo desiderio. Avrai più possibilità di me per accontentare i tuoi figli". Sentivo di averlo mortificato e per scusarmi esponevo la mia logica: "Si nasce tutti nudi ma subito dopo si è già diversi." "Si nasce svestiti ", precisava lui: "ma con dentro la genetica del nostro passato. Quello che veramente valorizza le persone e il modo di stare al mondo, il saper dare un giusto senso della vita". Il riferimento al passato, in allora, non sapevo cosa fosse. Pensavo ad un aggravamento della situazione. Occupavamo, a quel tempo, una vecchia casa al centro storico, in affitto. I miei pensieri scorrevano sulla superficie delle vecchie mura: erano il mio libro. Guardavo quelle pareti e studiavo mentalmente le materie scolastiche, e domande che la vita mi sottoponeva, Quel giorno, anche gli occhi accarezzavano, non succubi dei pensieri, la superficie muraria seguendo le fenditure, le piccole lesioni, il cavillamento dell'intonaco, le macchie di un colore ormai spento, i residui del bianco calcinato, tutti quei segni che io chiamavo le rughe del muro. Mi parve di vedere il contorno della conformazione di un albero. Una scoperta straordinaria che andava oltre il piacere; il coinvolgimento di una grande emozione che mi parificava con quel mondo che vedevo lontano da me.
Mio padre, sempre disponibile a sollecitare la creatività dello spirito, condivideva la mia osservazione: "Sono arabeschi egiziani" e, restando al gioco, vedeva anche lui l'albero, dandomi assicurazione che quelle "rughe" disegnavano un autentico sicomoro, l'albero dei sultani. Era una scoperta bomba, una notizia da portare agli amici, che si dimostrarono, invece, poco propensi a dare ascolto alle mie fantasie. E' stata la pazienza di mia mamma a farmi capire che non era una umiliante indifferenza la loro risposta ma una semplice e naturale noncuranza. "Sono atteggiamenti spontanei, senza secondo fine non potevi credere che avessero voluto sottolineare la nostra condizione familiare. Tante volte chiedono il tuo aiuto nei compiti, segno di grande considerazione e stima per il tuo valore. Non soffermarti su dei pensieri inesistenti". Mia mamma faceva dei ragionamenti pacati, senza l'enfasi di mio padre, molto più controllabili e quindi più convincenti: "Starai meglio se saprai dare e ricevere senza gelosia o invidia, con la ricchezza necessaria per gioire del benessere degli altri". Questo l'ammonimento di mio padre: "molte cose cambieranno e tu potrai contribuire a cambiarle, avrai figli e, più fortunato di me, potrai preparare tanti alberi di Natale". Diversamente dalla sua profezia non ho avuto figli e l'occasione piacevole di allestire l'albero di Natale mi è mancata.

Mia moglie vi provvede: un piccolo albero di plastica rivestita d'argento, con molte palline colorate lucenti. A me pare un elemento tecnologico, non mi attrae.
Sono rimasto all'emozione del sicomoro tracciato sul muro, che veniva dal passato, da un mondo lontano e fatato, se non dei sultani almeno dei nostri avi, che ci hanno preceduti ed hanno costruito il nostro paese con enormi sacrifici ed affanni. Diventato adulto, ho dovuto, per professione, interessarmi dell'edilizia. Il contatto con quelle mura è diventato un mio lavoro e so che quelle fenditure, quei segni, non sono le rughe delle mura anche se sono segni del tempo. Ma so anche quanti elementi fisici e chimici hanno operato per incidere quei segni: il freddo, il caldo, il sole, la luna, la pioggia, il vento, il giorno, la notte, l'inverno, l'estate, e poi la salsedine, la sabbia, gli insetti, la gente, e soprattutto gli anni trascorsi. Una autentica metamorfosi che fa dei segni un patrimonio di valore della memoria, d'importanza fondamentale per la salvaguardia della nostra identità storica e culturale. Quando ero costretto a far abbattere una di quelle murature era per me un momento di difficile impegno: dovevo soddisfare la razionalità del lavoro e salvarle nel possibile, anche a costo di intralci progettuali, con la consapevolezza di quanto sia importante la memoria del passato. Era un grande ed emozionante momento di genuinità, di verità, di autenticità e di una straordinaria esaltazione, la difesa dalla cancellazione di tanti sicomori. Era come una malinconica visione della vita, delle aspirazioni, delle illusioni, una realtà amara come un buco nero.
Ritornare con tanto piacere ad un passato tanto sofferto sembrerà un anacronismo: qualcuno dirà che ritorna al passato chi non ha più futuro. Lo rivedo il passato attraverso le mie emozioni e le ripropongo nei miei quadri proprio come memoria del futuro, non nel rispetto della fisicità, che forse nulla esiste o è esistito di quanto rappresento, ma la ricerca della atmosfera sentimentale di quel tempo, il profumo di ginestra, il gusto di sale, le strade abitate, i suoni, le voci conosciute; le persone sedute sui gradini esterni, le barche appoggiate ai muri. Non m'importa il risultato dal punto di vista critico, ma inseguo quella icona con tutta la forza dirompente, l'aggressione sensibile che un'immagine può scatenare negli occhi di chi la vede allo stato ideale. Quando un'emozione invade l'immaginazione, diventa un ricordo ossessivo, persistente, una memoria. Sarei felice se riuscissi a trasferire la sensazione di quel vissuto, sollecitandone ricordi o domande, a chi si propone di decidere per noi. Un grande cambiamento tecnologico e sociale è avvenuto nel mondo, da quando ero bambino, ma quello spotornese è stato forse più intenso e più dolce al tempo stesso, proprio perché non c'è stato un dirompente impatto ambientale, distruttivo del nostro paesaggio.