“U tecciu du Gigin"
di
Gianmarco Basadonne
Ai miei tempi, con l'arrivo dell'autunno si iniziava a raccogliere le prime castagne cadute spontaneamente; in seguito gli uomini con lunghe pertiche percuotevano i rami per far cadere i ricci rimasti sugli alberi, quelli che erano ancora chiusi venivano raccolti a parte e portati a casa per essere aperti più avanti. I gusci vuoti erano radunati in sacchi e conservati per alimentare il fuoco nel “Tecciu”, il locale usato per seccare le castagne.
Già, le“Le castagne secche!”, è bastato un soffio per farmi rivivere un pezzo della mia infanzia, che ben volentieri racconto.
Una volta c'era “U tecciu du Gigin”, nel dialetto del mio borgo natio, il locale usato per seccare le castagne era chiamato “Tecciu”. (Vedi Filmato)
Non tutte le famiglie avevano castagneti, nemmeno tutti i produttori il tecciu, Gigin sì! Aveva due soli alberi e un teccio enorme.
I tecci che ricordo erano piccole costruzioni in muratura.
A metà altezza grosse travi reggevano travetti distanziati fra loro pochi centimetri, non permettevano alle castagne di cadere sotto.
A distanza, bruciava solitamente un grosso ceppo, senza fare fiamma.
Al ceppo si univano le bucce e i ricci dell'anno precedente, il tuo pericarpo.
Entrambi senza fiamma, solo calore e fumo. quanto serviva per seccare.
Nella parete sopra il graticcio vi era una porticina d'accesso, da lì si vuotavano i sacchi di frutti.
Ogni giorno col rastrello si giravano le castagne sino alla completa essiccazione.
Poi la seconda fase: la sbucciatura e la pulizia: per questo si usavano sacchi di canapa resistenti, che erano riempiti di castagne per un quarto di sacco e battuti su un ceppo liscio da più persone alternativamente, oppure in altro modo con le mazze di legno appuntite.
A questo punto si separavano le castagne dalle bucce col “vallo”, e con un setaccio venivano separati i frutti interi dallo “spezzato”, ossia il residuo della lavorazione che era usato cotto per le bestie.
Il mio borgo è aggrappato a metà di quella lussureggiante e impervia collina nell'entroterra dall'ampio orizzonte, ed il tecciu era in posizione comoda da raggiungere, come anche per altre tre famiglie.
Di Gigin ricordo appena vagamente la figura: alto un metro e mezzo, gambe arcuate da cavallerizzo, magro più di un'aringa, un tantino gobbo per il lavoro da ragazzo; quasi ogni giorno alticcio finché vi era vino in cantina, poi si affidava a qualche benefattore; ai miei otto anni e seguenti lui ne aveva forse quaranta o giù di lì.
Per otto mesi all'anno faceva il carbonaio nei boschi, dormendo all'aperto nel ricovero di fortuna, nel frattempo curava le poche viti, poco la campagna, salvo patate, fagioli, ceci e rape.
Col tardo autunno rientrava fisso a casa, come l'orso in letargo e si dedicava alle castagne sue e di altri pochi. La madre, più solerte delle formiche, raccoglieva le loro sotto i due alberi e altrove.
Altre famiglie senza il locale le affidavano le loro castagne riempiendo il tecciu diviso a settori.
Gigin da analfabeta misurava i singoli apporti a sacchi, segnando per ogni sacco una striscia su un pezzo di ardesia col nome del proprietario; alla fine ognuno riceveva le sue meno la parte per il servizio, su questo era preciso come il cambio stagione.
La madre di Gigin ogni giorno senza grandine, acqua torrenziale o neve, usciva di casa al mattino e al pomeriggio, una capra al guinzaglio, l'altra al seguito come il cane a chiudere il gruppo.
Tornava sempre con borse piene, due sulla groppa della capra al guinzaglio, la più pesante in testa.
Lei sapeva racimolare ogni cosa secondo le stagioni, iniziando dalle pigne ai funghi, con in mezzo frutti, verdure spontanee di ogni tipo. Più quanto impigliato nei lacci tesi dal figlio.
Poi castagne, noci, nocciole, nespole, fichi ed altro; non rubava, prendeva ciò che Dio distribuiva e altri lasciavano o non vedevano, raccoglieva le proprie castagne spingendo la mano oltre il confine quel tanto tollerato, svelta se nelle vicinanze vi erano alberi trascurati, oppure in zone impervie, quelli abbandonati nel bosco.
Da buona formica radunava il possibile senza lasciare dietro nulla, curava la poca campagna in assenza del figlio, era astemia, beveva solo acqua.
Nella stalla per compagnia il maiale, in casa un buon numero di galline deponevano uova nei luoghi più strani compreso il pagliericcio di foglie di granoturco usato per letto. A chi si stupiva per il libero accesso degli animali rispondeva: “Vengono a prendere contatto con la pentola, il loro destino.” Ogni tanto si sentiva profumo di brodo, delizia per l'olfatto.
Quando il tecciu era in funzione diveniva luogo di ritrovo per molti della contrada, senza distinzione d'età o sesso: i ragazzi fingevano di studiare o fare i compiti a casa, nel mentre ascoltavano dagli adulti l'andazzo della vita, le ragazze provavano a ricamare o tessere lana, in effetti attente ai ragazzi più in vista, le madri oltre a rammendare e sferruzzare lana tessevano cappotti di pettegolezzo sugli assenti; gli uomini parlavano di campagna, raccolti e caccia, scambio di prodotti agricoli, legna, carbone, attrezzi, giornate di lavoro da scambiarsi.
Gigin ascoltava, ogni tanto qualche consiglio, era abituato a meditare! Preciso: a quel tempo si usava scambiare una giornata di uomo con due di donna, altro che parità come dicono oggi i tromboni della politica!
Quasi ogni ritrovo serale Gigin metteva mano al padellone di ferro dal fondo bucato, l'odore acre di caldarroste si mischiava a quello del ceppo acceso.
Per alcuni quella era la seconda cena, migliore della prima, altre volte la madre offriva noci o nocciole, del formaggio di capra stagionato, una delizia! Qualcuno portava ciò che aveva a casa per contribuire alla serata, oltre le chiacchiere.
I primi a lasciare la congrega le madri con figli, gli uomini dopo poco, giusto il tempo per parlare di caccia: le prede crescevano di numero e peso, con aggiunta di più gambe.
Gigin ascoltava, mai avuto permesso di caccia, o fucile, tutti sapevano quanto era bravo come bracconiere, lui faceva, non parlava, i vicini sentivano i profumi della Rosalia, la madre.
Non so di compagne o moglie, vivevano soli, ero piccolo e timido, mettevo da parte ogni loro parola in silenzio.
Si usava ritrovarsi anche in altre case. Da noi nelle vigilie di feste importanti per il rosario, diretto dal nonno: centocinquanta Avemarie più tutto il resto.
Per l'occasione il nonno metteva in tavola il fiasco del vino buono, tutti lo rispettavano non solo per l'età, ma anche per il modo di dire le litanie in latino.
In seguito il teccio è stato trasformato in casa, l'ho visto da poco.
A tredici anni lasciai il mio borgo per altro paese, e lì tornai poche volte; nel frattempo anche al borgo arrivò la modernità, la macchina sbuccia castagne a motore, la trebbia per il grano, la corriera tutti i giorni, l'uso del mulino moderno per le olive.
Non cambiarono le riunioni nel tecciu du' Gigin e nelle altre case dove si erano aggiunti volti nuovi.
Poi tutto nuovo e meglio, basta fame, via dai boschi, dalla campagna, a costruire con i muratori, nelle fabbriche di città. I castagni, i campi, i boschi, lasciati al lento declino.
Io ancora più lontano dal borgo natio.
Infine arrivò la televisione a disperdere la gente dal tecciu, Gigin, sempre più curvo e magro, levò il disturbo un giorno di novembre col tecciu vuoto e spento, la madre lo aveva preceduto di qualche mese.
Del mio piccolo mondo dell'infanzia resta un dolce ricordo e la poesia che si canticchiava ridendo davanti al fuoco:“Gira su'ceppi accesi/ lo spiedo scoppiettando:/ sta il cacciatore fischiando/ sull'uscio a rimirar/ fra le rossastre nubi/ stormi d'uccelli neri/ come esuli pensieri,/ nel vespero migrar.”