Mio padre e i suoi pseudonimi.
di Ettore Canepa
Mi ero recato là dove avrei dovuto presentarmi per il mio primo giorno di scuola: in prima elementare. Quella mattina ero solo: la mamma e il babbo non potevano essere presenti. Tutto sarebbe andato liscio, ma dal controllo delle mie generalità, nel registro, risultavo figlio di Francesco anziché di Mario. Il nome di mio padre era Mario, come lo chiamavano la mamma e gli amici, per me era Pa'. L'idea di un nome diverso da quello familiare, sentito tante volte, non la potevo accettare. Mi pareva una persona estranea e ciò mi disturbava, procurandomi angoscia.
Restai ansiosamente in attesa del ritorno a casa per riferire l'accaduto. Ci volle tutta la pazienza di mio padre per tranquillizzarmi: "Abbiamo sbagliato - disse - dovevamo metterti al corrente. Effettivamente mi chiamo Francesco, il nome Mario me lo sono dato io, per sfuggire alle ricerche di mia madre, la nonna, che rimasta vedova dopo la mia nascita si era risposata il mio nuovo padre aveva assunto nei miei confronti atteggiamenti severi e punitivi. La mia prima fuga, a dieci anni, non durò molto; anche la successiva non ebbe fortuna, fui subito ritrovato dalla nonna. Durante la terza, a dodici anni, ero più esperto e assunsi un nome falso: Mario. Non fui più trovato fin quando, ormai autonomo, ripresi i rapporti con la mamma". Il cambiamento del nome di mio padre ritornò in ballo una seconda volta, quando a quattordici anni lavoravo in una industria a Finale come apprendista lattoniere e aiuto di un operaio specializzato. Questi, di nome Turi, pur godendo di buona considerazione per capacità lavorativa, era poco stimato come uomo e gli stessi compagni di lavoro raramente gli rivolgevano la parola.
Allora (1934) imperava la dittatura e con lei L'opportunismo: tutti cercavano di dimostrare di essere fedeli più degli altri. Turi era notoriamente anarchico e, per giunta, comunista. Cose che non capivo, ma il distacco, la non comunicazione degli altri operai verso di lui la percepivo: era ostentata di proposito, estesa persino a me che non c'entravo nulla. Turi nei confronti degli altri aveva un atteggiamento di cortese distacco non curante di nulla come se non si accorgesse di quell'isolamento voluto o ne avesse piacere. Qualche volta lo sentivo mormorare una specie di filastrocca. Seppi dopo che erano le parole di Bandiera Rossa. A me quell'uomo in verità non piaceva molto: oltre che gobbo e sciancato, non si teneva pulito, puzzava di non lavato, di cattivo tabacco e di vino.
Capitava spesso che disertasse il lavoro, ed ogni assenza era sottolineata da ironiche risatine dei compagni di lavoro: "il tuo capo è in collegio...,", mi sentivo dire. Avevo notato che molte assenze coincidevano con i ritiri forzati che venivano imposti anche a mio padre in occasione di visite di personaggi politici di rango, in Liguria o in parte del Piemonte: tre giorni fuori casa, una sofferenza per tutti noi.
Un giorno chiesi a Turi se conosceva mio padre. "Perché lo dovrei conoscere?", rispose. "Mio padre viene a volte ospitato nella caserma X di Savona". Mi guardò fisso, diffidente, e con un mezzo sorriso: "Non conosco tuo padre, non vengo ospitato in nessuna caserma". La stessa domanda la rivolsi a mio padre: "il nome non mi aiuta, là abbiamo nomi fittizi e ci conosciamo attraverso quelli, ma fisicamente hai descritto una persona che conosco e che noi consideriamo un compagno coerente e leale Ha una idealità politica diversa dalla mia, ma siamo uniti nei nostri obiettivi".
La mia curiosità diventò incontenibile: "Quale nome fittizio hai assunto?". "Francesco", mi rispose
Mi scoppiò una sonora risata: "Ma Francesco è il tuo vero nome e poi non è un nome che può essere preso come nome di battaglia, Francesco è un nome serio, rappresenta la pace, la preghiera, L'amore".
"Appunto, ho voluto un nome che si addicesse alla serietà della mia resistenza passiva di opposizione al regime; ai federali senza scrupoli che ordinano e non conoscono la vita e i problemi della gente; che non vogliono la libertà nella giustizia sociale la difesa dei deboli dalla prepotenza dei forti.
Sappiamo che il nostro sarà un solitario urlo nel deserto e che la strada verso i nostri ideali è sbarrata, ma noi crediamo e speriamo nel futuro. Molti compagni resistono al confino, nelle carceri. Per noi la resistenza è meno amara, pur tuttavia ho il dolore profondo di aver coinvolto anche la famiglia e non so come giustificarmi con voi. Un atteggiamento conformista avrebbe agevolate tante cose, con minori sofferenze per tutti, per questo mi sento in colpa. Spero che un giorno, quando le cose saranno diverse, converrete che anche la mia resistenza, una goccia in un mare, doveva essere fatta"
La verità è che non ero proprio d'accordo con mio padre. La vita corre e la rinuncia a viverla, sperando in un avvenire più libero, non giustificava, ai miei occhi, il suo sacrificio. Solo dopo, quando conobbi la libertà, mi resi conto del fondamento delle ragioni di mio padre, che, col fascismo, la perdette. Lo ricordo il giorno della prima votazione quando volle, nonostante fosse fisicamente impedito, manifestare la sua partecipazione democratica con inimmaginabile fatica, da solo, rifiutando qualsiasi aiuto. La sua gioia così evidente, di grande soddisfazione interiore, compensò le mie rinunce.