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Postfazione
                                        di Luciano Angelini

            Si   scrive   Genoa   Cricket   and   Football   Club.   Si   legge   fede.   Una   fede   incrollabile.
            Accomuna in modo indissolubile, nella buona (rara per la verità, con tutto il rispetto) e
            nella cattiva sorte. E’ nel dna del genoano saper soffrire più che gioire. Ma quando il
            Grifone riesce a compiere un’impresa, allora sangue ed emozioni fanno battere a mille
            il cuore della Nord, covo e culla della tifoseria. La passione è medicina per le delusioni
            e viatico per chi, fin dai mesi in una culla colorata di rossoblù, sente forte il senso di
            appartenenza.

            Ne è prova concreta il viaggio che Bruno Marengo ha deciso di intraprendere tra
            ricordi e sentimenti, emozioni e testimonianze, amicizie di strada e di campo. E’ facile
            e difficile per uno juventino di antica militanza (non sono molti a poter raccontare di
            aver   visto   i   bianconeri   perdere   contro   il   Grande   Torino   nella   stagione   conclusa
            tragicamente sulla collina di Superga) scrivere del Genoa. A maggior ragione per aver
            visto i bianconeri cadere a Marassi l’11 aprile 2009 sotto i colpi di Thiago Motta e
            Palladino (non servirono a nulla i goal di Del Piero su rigore, inesistente secondo la
            Nord, e Iaquinta).

            E’ invece dolce rivedere il goal di Glauco Gilardoni che, al “Bacigalupo”, decise il derby
            della (unica) stagione in Serie B del Savona di Pierino Prati, Eugenio Fascetti e Angelo
            Spanio, tanto per non fare nomi. Ma è storia lontana oltre cinquant’anni. E molti
            campionati hanno fatto dilatare oltre il lecito, per la parte biancoblù, le distanze tra il
            Savona e i “cugini” del Genoa.
            Marengo è genoano ad alta intensità. Com’è giusto che sia. La storia del Genoa è la
            storia del calcio italiano. Non è il caso di ricordare che il primo titolo italiano (lo
            scudetto tricolore come segno distintivo fu scelto nel 1924) risale al 1898. Poi vennero
            gli altri scudetti, ormai lontani ma indelebili. E l’impulso di raccontare e raccontarsi
            non ha bisogno di alimentarsi  con grandi imprese (mai dire mai). Nei ricordi di
            Marengo, intensi e puri, traboccanti entusiasmo e sentimento, c’è davvero quel senso
            di appartenenza che, ahinoi, sembra inaridirsi e talvolta incattivirsi nel mondo del
            calcio sempre più snaturato e stravolto da valanghe di parole e bulimia di immagini,
            esaltazioni di imprese immaginarie e immaginate per alzare gli ascolti.
            Scrivere del Genoa così come e perché lo ha fatto il genoano Marengo è dimostrazione
            di amore e, forse, anche di disaffezione e allontanamento per quanto impone la nuova
            realtà. Non solo nel calcio. E per lui, discreto calciatore con la “sua” Spotornese, poi
            esponente politico di una sinistra ormai dispersa, già sindaco di Savona e Spotorno,
            scrittore dalle molte estensioni letterarie, è forse un modo per ritrovare e ritrovarsi
            con   la   parte   più   semplice   ed   entusiasta,   certo   coinvolgente   per   esperienze   e
            frequentazioni, di una vita ora e sempre colorata di rossoblù.



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