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tutto l'ospedale Leone è l'ammalato più povero, tant'è vero che è senza
          camicia! In compenso emergeva dal letto con le rotonde spalle nude e
          l'attaccatura del quadro del petto ignudo e aveva una tale  espressione di
          salute e di robustezza che proprio per questo noi infermiere gli mettemmo il
          soprannome di Leone."  Però si trattava di un leone prigioniero, costretto
          all'immobilità, dilaniato da mille dolori - dice ancora la Rizzioli - quanto era
          buono   Leone,   come   sopportava   stoicamente   le   sofferenze.  “Verso
          mezzanotte veniva sempre a salutarlo il suo capitano e gli portava parole di
          conforto. Bastava questo, una parola, un gesto a dargli aiuto e superare i
          momenti   più   neri   “.  A  Domenico   Calcagno,   chiamato  "Leone",   venne
          affibbiato dal chirurgo un nuovo nomignolo, affettuoso e confidenziale, lo
          chiamò anche “l'uccellin bel vede".
          Scrive la Rizzioli:  “...una penosissima mezz'ora che non si sapeva come
          guardarlo,   neanche   toccarlo,   e   la   medicazione   bisognava   pure
          farla...cercavamo di distrarlo...una di noi gli teneva la testa stretta e voltata
          perché non vedesse il laghetto di pus che colava dal tubo di drenaggio, non
          appena era liberato dalla garza, putrida anch'essa...”
          Un altro nomignolo gli venne dato: quello di "serpente” non appena fu in
          grado   di   muoversi   in   tutti   i  modi.   Ma  a   poco   a  poco   più   pensoso   e
          desideroso del suo orto, laggiù nel sole, a Spotorno. Diceva: "Ah! Se potessi
          mangiare dei miei cavoli e delle mie carote, non se ne possono trovare di
          migliori: e ci ò di tutto nel mio orto”. Poiché stava meglio venne anche l'ora
          e il giorno della partenza dall'ospedale.
          "É  un dispiacere lasciarci, vero?  “disse la crocerossina Rizzioli. E lui
          rispose: "...anche dividendoci ci ricorderemo e ci vorremo bene". “E' più
          facile   mantenersi   buoni   quando   si   vuole   bene   a   tanta   gente,   vero”?
          All'ultimo momento egli osò dire la grande cosa che non aveva mai saputo
          sprigionare dal suo cuore umile:  “io voglio bene alla terra, signora, ed
          anche a lei”. "Anch'io a voi, Leone”, lei rispose. Addio, addio e l'ambulanza
          sparì. Domenico Calcagno detto Leone, scrive ancora una lettera alla “cara
          signora infermiera”  e dice  "Addio Spotorno, addio orto, vado dove mi
          mandano”  Il 28 ottobre 1917 l'avevano fatto abile ai lavori sedentari e
          messo ai forni militari della Carnia a fare il pane. Giunse a Tolmezzo e
          anche li vide morti e feriti e concluse:  “Ma io non vorrei essere nato
          piuttosto che vedere quello che ho visto...combatterò come un Leone per
          meritarmi quel nome che sempre mi chiamava lei. Coi più profondi saluti
          suo Domenico Calcagno.”
          Fini la guerra e non si parlò più di Domenico Calcagno se non che ci pensò
          Alberto   Lumbroso,   il   quale   scrisse   sul  “Giornale   di   Genova”  n°   24
          settembre 1932, un articolo intitolato “Il Leone di Spotorno".

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