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fronte al rigore a favore della sua Juve ha allargato le braccia. Mi è tornata alla mente
            la partita Juventus Genoa 3-2 del 1957, che vidi con mio padre in quello stesso stadio.
            Delusione,   rabbia   per   l’ingiustizia   subita,   ma   anche   passione   e   solidarietà   per   i
            “perdenti” che non verrà mai meno.
            Molti autorevoli osservatori hanno scritto che una partita di calcio è come lo svolgersi
            di un romanzo neorealista con il gioco di squadra collettivo, con l’estro individuale, con
            i  vincenti  ed  i  perdenti,  con  il  carattere,  con  l’abbandono,   con la  passione  e  la
            razionalità, con la poesia e la prosa, con il duro realismo e la fantasia, con gli errori e le
            ingiustizie, con “la legge del più forte” che a volte si può infrangere.
            Ora   che   il   calcio   è   diventato  un’industria,   con   vorticosi   giri   di   affari   di   valenza
            mondiale, con “operazioni strabilianti” come quella della venuta in Italia di Cristiano
            Ronaldo nella Juve, ancor più si evidenziano le “abissali differenze” tra squadra e
            squadra. Il calcio è diventato quasi un paradigma di come viaggia il mondo.
            E ci piace pensare di viaggiare “contro corrente” con il Genoa, comunque vada, una
            volta tanto. Ci aiutano e riflettere in questo senso le parole, tratte da un suo articolo
            del 14/4/2017, di Marco Pastonesi (scrittore, giornalista sportivo) che partono dagli
            “umori variabili” della tifoseria genoana:
             “(…) … una tifoseria capace di contestare allenatori come Osvaldo Bagnoli (che portò
             il Genoa al quarto posto nel 1990-91 e lo guidò in Coppa Uefa nel 1991-92 quando
             espugnò l’Anfield del Liverpool) e Gian Piero Gasperini (che, come spiegano i tifosi più
             obiettivi, “riesce a far giocare bene anche i morti”). Chi può mai perdonare una
             partita scellerata come quella di questo campionato, in casa, con il Palermo, quando
             fino a una ventina di minuti dalla fine, il risultato era in cassaforte (3-1), poi si è scelta
             l’apocalisse: 3-2 al 69’, 3-3 all’88’, 3-4 all’89’. Molli come panisse (la panissa è un piatto
             ligure, povero ma nutriente: farinata di ceci, senza – si risparmia – olio di oliva). E una
             partita al di sotto di qualsiasi sospetto. Ma il Genoa è il Genoa più di quanto la Juve
             sia la Juve o il Napoli sia il Napoli. Il Genoa è il Genoa. E’ il Genoa di Franco Scoglio, il
             Professore,   che   sospettava   che   Gesù   Cristo   fosse   genoano.   Non   alludeva   al
             soprannome – Figlio di Dio – regalato al genoano Renzo De Vecchi dai tifosi – era il
             1920 e su di lì -, certi che così divinamente si potesse giocare soltanto in paradiso.
             Forse Scoglio pensava più alla passione e al sacrificio, che gemellavano il Calvario e la
             Gradinata Nord, due luoghi fatali. O forse si riferiva a certi aspetti religiosi – preghiere,
             fede, miracoli, ma anche peccati e sacrilegi, e conseguenti espiazioni e persecuzioni –
             che sembrano poter legare la Famiglia celeste a quella rossoblù. Il Genoa è il Genoa di
             Sandro Pertini e Frank Sinatra, Vittorio Gassman e Gianni Brera, è il Genoa di Fabrizio
             De André che a Gianni Minà, cimentatosi in “Creuza de ma’”, disse che l’aveva cantata
             “come un sampdoriano”, è il Genoa dello striscione “Doriane tranquille, Pato non
             parla” a proposito del coinvolgimento di Aguilera nel reato di favoreggiamento della
             prostituzione, è il Genoa della scritta lapidaria (su un muretto al porticciolo di Nervi, e
             poi titolo di un libro di Alberto Isola) “Più mi tradisci più ti amo”.


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