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fila, senza gerarchie all’ideale cancelletto d’imbarco del volo per “Sevilla”,
ognuno ha la sua “Sevilla”.

       Ride, la giovane cameriera-studentessa del ristorante torinese, alla
fine del romanzo, agli scherzi ed ai lazzi dei due impenitenti “attendisti”:
ride, senza sapere che il suo è un riso d’addio, la risata che ci allontana
dal sogno e ci riavvicina alla vita.

       Noi continueremo ad aspettare il sogno, magari seduti al Valen-
tino, aspettando che qualcuno ci chiami per dirci che “Sevilla” sta risa-
lendo il Po.

       Archiloco ed il Duca non hanno fallito: sarebbe troppo semplice at-
tribuire le categorie del fallimento alle contingenti scelte di vita.

       Abbiamo già ricordato come, nello scorrere del tempo di vita dei
protagonisti, abbiano avuto grande importanza gli scambi epistolari
con quanti a “Sevilla” li stavano attendendo: emergeva da lì una ricerca
di impegno sociale, di capacità di andare controcorrente anche in ma-
niera “buffonesca” come è sempre nella realtà del “Duca”, sospeso spesso
tra farsa e tragedia.

       Non essere arrivati a “Sevilla” nonostante questi stimoli, queste at-
tese, fa pensare ai protagonisti al fallimento.

       Ebbene: cosa c’entra il fallimento con lo scrivere di calcio ed oc-
cuparsi delle aziende di famiglia?

       Nulla, semplici contingenze e coincidenze, perché rimane lo spa-
zio per ben altro e ci sarà sempre chi, usando la sublime arte della nar-
razione sarà capace di descriverlo quell’altro, dentro e fuori di noi.

       Un testo da leggere prima di tutto con il pensiero: rivolgendoci ai
nostri viaggi e alle nostre mete, ma senza cercare necessariamente il filo
rosso che li lega assieme; quel filo comparirà all’improvviso, lo seguiremo
e alla fine troveremo “Sevilla” e, quel giorno, capiremo che dovremo con-
tinuare a cercare.

                                                                 Franco Astengo

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