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malattia soffre?”; “Malato sarà lei!”. Cominciamo bene”, pensai, mentre lui, in preda
ad un crescente stato di estasi, come ispirato, sembrava parlare fra sé, in un soliloquio
esplicativo, liberatorio. “Io sono sano, sanissimo” (anche tutti i matti dicono così!);
appartengo ad una specie non protetta, non in via di estinzione, anzi inestinguibile;
per dirla tutta, appartengo ad una famiglia di genoani e sono stato ricoverato con
diagnosi di genoanite acuta. E’ una malattia questa? No! E’ un’offesa: io sono la
reincarnazione di Verdeal e in più ci si dimentica che noi siamo i sacerdoti incaricati dal
dio che ha inventato il gioco del pallone a celebrare i sacrifici a lui nel tempio di
Marassi, il Ferraris, a Genova, un tempio, un luogo sacro, stagno di riposo e
nutrimento per fenicotteri stanchi, come Milito e Motta, che poi hanno volato in alto
in cieli altrui, che è stato casamatta di rifugiati di ogni sorta, come Di Pietro, Boyè, di
giocatori d’ombra come Frizzi, di palle di gomma, come il Becca, di puttanieri (come
Aguilera-una puttana ogni sera), di vestali del dribbling, come Abbadie, il “pardo”,
violentatori di reti, come Levratto, giganti, come Signorini, un tempio che custodisce la
memoria di gente d’avventura, come “Sandokan” Silvestri, galantuomini, come Santos,
Simoni, Bagnoli,“Gasperson”, che è stato attraversato da bagliori farfalleschi, come
Meroni, “Carappa”, Corradi, da presidenti, irriducibili nemici di logica contabile, di
congiuntivi, talora fedifraghi, inseguiti dalla Finanza, molti dei quali ricoperti
unicamente di allori mietuti nelle serre dei suk, bucanieri… In quel tempio, lì sacerdoti
e re siamo noi, noi, i donatori di sangue, quelli dell’assenzio, risuscitatori di morti,
capaci di fare dell’ironia amara sul sangue delle nostre ferite, tutti Leonida, e i nostri
eroi sono anche quelli che sbagliano il rigore all’ultimo minuto e ci mandano in B, i
guerrieri stanchi con la scirocchite, noi, quelli della medaglia di De Prà sotterrata un
metro sotto la porta della Nord, noi “gli inglesi” che hanno l’onore di giocare con lo
“Sheffield”, che hanno espugnato “l’Anfield”, dove campeggia il motto che ci affratella
con quelli là rivolto a chi ci rappresenta: “You’ll Never Walk Alone”, noi che parliamo il
“lunfardo” e ci diamo del tu con quelli del Boca… . Dicono, i sapienti, che saremmo dei
malati: non c’è medicina, soldo, intruglio da ciclisti, farmaco, impiastro, semicupio,
tisana, erba. Ci ha pensato il Dio del pallone, a noi; ci ha dato l’erba moly, quella che ha
preso Ulisse per neutralizzare la maga Circe e non diventare maiale, e questo ci basta”.
Frastornato, impressionato da quel delirio, uscivo dalla sua cameretta e dal reparto
“Agitati”: “Toh, un dottore, che fortuna! Collega, di che malattia si tratta?”. “Niente di
importante: genoanite. Questo parla e delira perché è sabato, domani sera sarà muto
e depresso. Guarda quella donna che viene, è la Marinin, sua moglie, gli porta la
formazione del Genoa in anteprima, gliela fornisce un massaggiatore del Genoa che,
ogni tanto, massaggia anche lei”. “Mah, e la cura?”. Insistevo… . “Niente; parole,
parole, parole, fotografie d’epoca, memorie, qualche permesso per andare a
palleggiare sul greto del Bisagno, dove una volta palleggiava il Genoa prima delle
partite in casa, per non rovinare l’erba del tempio, il quale, a dispetto di sofisti e ospiti
abituali, è il più bello d’Italia, un campo divino, quello del “vecchio balordo”, la
squadra che di più l’ha calcato con onore”. “Collega, collega, sarai mica genoano anche
tu, che hai un camice rossoblù e in ufficio la foto del buonanima di Pippo Spagnolo?”.
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