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E noi, quei ragazzini sporchi e sudati, gli siamo sempre stati riconoscenti
perché, nella sua semplicità, ci ha trasmesso dei valori profondi in una età
così importante per la nostra formazione.
La perdita dei genitori, quando era ancora in tenera età, aveva forse
contribuito a dargli una grande sensibilità che lo fece sempre partecipe delle
gioie e dei dolori degli altri, in particolare dei giovani. Era molto legato al
fratello Flavio, anche lui sacerdote che, parroco di Tosse, si assunse, con
l’aiuto dei tossesi, il pietoso compito di estrarre e comporre le salme delle
vittime del tragico bombardamento del 12 agosto 1944.
Ma con Don Quaglia parlavamo anche del presente: voleva sapere tutto
della vita del paese nonostante fosse rimasta in lui, anche se non me ne
parlava mai in modo esplicito, un po’ dell’amarezza di quando, dopo sedici
anni, dovette cessare il suo Ministero a Spotorno. Prima di andare via, si era
dato molto da fare per la costruzione delle opere parrocchiali.
Ha sempre rispettato la mia posizione di “non credente” e mi ripeteva spesso
che importante è l’essere a posto con la propria coscienza, l’agire guardando
al bene.
L’ultima volta che lo vidi, parlandogli di una società malata attraversata da
egoismo, intolleranza e forme di razzismo, dovetti sembrargli troppo
pessimista perché mi interruppe esclamando: “Vedrai che ce la faremo…
dobbiamo credere in un futuro migliore, più giusto”.
Parole di speranza, che hanno contrassegnato tutta la sua vita, rivoltemi dal
fondo del suo, mai perso, semplice e sereno ottimismo, anche se costretto in
una carrozzina da invalido. Ora riposa nella parte vecchia del cimitero del
Santuario di Savona.
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