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Morto nel 1972 il comandante Calamai, ai membri dello sfortunato equipaggio ancora in vita farà piacere
       leggere quell'elenco, contenuto in appendice al volume di Maurizio Eliseo, storico della navigazione e
       progettista di navi, in uscita da Hoepli, Andrea Doria - Cento uno viaggi (pagine 288, 59). Un libro, che oltre a
       contenere centinaia di foto inedite sulla nave voluta da Alcide De Gasperi che doveva simboleggiare il riscatto
       italiano, ricostruisce i momenti della tragedia, l'istruttoria di un processo che non si svolse mai, la strategia
       della comunicazione messa in atto da svedesi e americani culminata nel libro di Alvin Moscow, Andrea Doria ,
       ora ristampato da Mondadori, e in quello mai tradotto in italiano di Algott Mattsson, Out of the fog , fuori dalla
       nebbia, che accreditano la versione degli italiani colpevoli.

       Moscow si sofferma sulla codardia del nostro equipaggio prendendo spunto da quei pochi camerieri e sguatteri
       che abbandonarono per primi la nave; Mattsson arriva a sostenere che l'Andrea Doria fu costruito da progettisti
       corrotti violando le più elementari norme di sicurezza.

       Che cosa avvenne in realtà al largo della costa statunitense? Perché si parlò subito di responsabilità italiana?
       Perché a New York fu istruito un processo che non si tenne mai? E perché, infine, la nostra marina mercantile
       ha insabbiato i risultati dell'inchiesta? Eliseo ha ricostruito la dinamica della collisione: alle 22,40 di quella
       notte nebbiosa il transatlantico italiano, con a bordo 1134 passeggeri, 572 membri di equipaggio e 401
       tonnellate di merci, aveva appena passato il faro di Nantucket a una
       velocità di 21,8 nodi. Alle 22,45 fu comunicato al capitano Calamai che il radar aveva segnalato una nave a
       meno di dieci miglia, con velocità costante di 18 nodi.


       «Gli ufficiali sul ponte - scrive Eliseo - avevano commentato la stranezza di quella presenza nella zona
       riservata alle navi dirette verso Ovest». Calamai, calcolando che le navi si sarebbero incrociate a un miglio
       l'una dall'altra, ordinò di accostare di quattro gradi a sud, cioè di spostarsi verso sinistra, in modo da aumentare
       la distanza. La nave svedese, al cui comando in quel momento era il ventiseienne Cartens-Johannsen, perché il
       comandante   Gunnar   Nordenson   stava   riposando,   non   solo   viaggiava   venti   miglia   a   nord   dal   corridoio
       consentito, non solo aveva cominciato dalle 23,05 un costante spostamento verso destra perché si trovava in
       rotta di collisione con la nave faro di Nantucket, ma alle 23,08 accentuò quel movimento. Mai in quei lunghi
       minuti furono azionate le sirene, come invece prevede il regolamento.

       È vero che la velocità dell'Andrea Doria era elevata per la nebbia esistente, anche se a questo proposito non c'è
       una regola scritta, è però vero, come all'istruttoria del processo dimostrò l'avvocato di parte civile Leonard J.
       Matteson, che le maggiori responsabilità erano da addebitarsi agli svedesi. «Gli italiani - spiega Eliseo -
       scontarono subito un pregiudizio razziale. Vinse negli organi di informazione il cliché dell' efficienza svedese
       contro l'inaffidabilità italiana, anche per il fatto che
       le nostre navi rappresentavano la concorrenza più temibile per la flotta statunitense sulla rotta atlantica».

       La più grande tragedia del mare dopo quella del Titanic non ebbe mai un processo, le parti preferirono
       accordarsi e liquidare ai familiari delle vittime una somma complessiva di sei milioni di dollari contro i 116
       calcolati dall'avvocato Matteson. «Una simile somma - spiega Eliseo - avrebbe significato il fallimento della
       compagnia di navigazione svedese, la Swenska Amerika Linye, principale cliente straniero dell'Ansaldo,
       società controllata dal gruppo Iri, che stava costruendo la nuova nave ammiraglia degli svedesi, la Gripsholm.
       L'Iri controllava anche la società di navigazione Italia e quindi era il proprietario dell'Andrea Doria».

       Ecco il motivo per cui gli italiani rinunciarono al processo e preferirono accordarsi con gli svedesi: «L'Iri non
       poteva mettere a rischio ventimila posti di lavoro. Preferì sacrificare alla realpolitik la verità della commissione
       d'inchiesta e la carriera del comandante Calamai, che non fu mai richiamato in servizio, a differenza degli
       ufficiali della Stockholm».

       Tratto da un articolo su "Libero".













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