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un foglietto della “Recoaro” (li ricordate?). Quindi mi riavvicinai
al palco e gli dissi, porgendogli il foglietto, che il problema,
almeno per me, era risolto. Scintillò un sorriso su quel suo viso
scuro di cacao; si rivolse stupito agli orchestrali: “Sentite questo,
mi ha scritto le parole di una canzone e ora bisogna cantargliela;
non ci sono scuse...”, si intesero al volo, eseguirono la canzone e
cinque minuti dopo mi invitò al suo tavolo. Eravamo diventati
amici. Sono ed ero già allora certo, credo, che il male esistesse, che
ci fossero il dolore e l’emarginazione. Erano solo meno “saputi”
meno riconoscibili; c’erano penso altre ferite delle quali si doveva
ancora guarire, ma se ne stavano occupando i nostri genitori; noi e
la nostra età avevamo, anche un po’ colpevolmente, la testa girata
dall’altra parte. Marino non distraendoci dalla nostra felice
irresponsabilità, ci raccontò fiabe musicali, anzi “FAVOLE”, con la
cantilena raschiata della sua voce di velluto grezzo, cullandoci con
il tempo che normalmente l’accompagnava: la samba lenta. Ci
volle far credere che sarebbe perfino stato possibile acquistare una
nuvola e di lassù divertirci a tirare la coda alle comete. Cantò
l’amore, certo come lo hanno cantato tutti, facendogli fare rima
con cuore, ma sfidò, vincendola, la banalità. Il suo era un amore
nella cui filigrana si potevano leggere una malinconia mai del tutto
superata, un desiderio, mai del tutto espresso, però vagheggiato,
sperato, osato, raramente soddisfatto, trattato con una punta di
subliminale sensualità. E quel desiderio riusciva a dare spazio ai
tormenti e alle esaltazioni dell’anima che, recitava con una
canzone, “si può tenere tra le mani”. Il tutto irrorato
dall’emulsione miele e catrame delle sue tonsille. Non si
autocelebrò profeta di nessuna crociata; fece in tempo, grazie a
Dio, a non diventare un mito. In modo commovente e garbato ci
ricordò appena il colore della sua pelle, proponendoci “ANGELI
NEGRI”. Un’autentica preghiera rivolta ad un pittore intento alla
decorazione di un altare, la preghiera di “Fare” gli angioletti negri,
perché anche loro vanno in cielo, come quelli bianchi. Tutto lì.
Personalmente sono abbastanza convinto che i “messaggi”
funzionassero più così che in forme urlate, ma forse mi sbaglio.
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