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“Chiedilo al tuo amico poeta…”, il Duca aveva indicato Archiloco
che intervenne: “Le ragazze sono di Norimberga e non parlano né in fran-
cese né in inglese così il Duca si è scoperto latinista”.

       “E tu come fai a saperlo?”, Zuccherino si divertiva.
       “Lo sa, lo sa. Studiano in un istituto di suore. Zoppicano in latino
come noi ma sono delle maliarde. Il tuo cicisbeo mi ha lasciato solo per
curare il piedino dell’amata spinata…”, il Duca era nel suo.
       “Allora mi ami…”, Zuccherino aveva abbracciato Archiloco ri-
dendo.
       “I soliti sdolcinati, andiamocene, pauci sed boni! Voluptas! Volup-
tas!”. Le ragazze, prese sottobraccio dal Duca, salutarono: “Valete omnes”.
Si vedeva che si divertivano. Uno come il Duca dove lo avrebbero mai
trovato?
       Archiloco pensava spesso, con rimpianto, a quei tempi quando
tutto ancora era possibile. Era la sua fuga dalla realtà. Una realtà costellata
di calci di rigore negati, di moviole, di ciclisti dopati, di trasmissioni tele-
visive all’ultimo urlo; di un effimero successo fatto di libri che scriveva senza
convinzione, di romanzi che sentiva ma che non riusciva a scrivere, di tra-
smissioni radiotelevisive quasi sempre inesorabilmente uguali e squallide.
Di interviste che rilasciava fingendo di essere uno scrittore vero.
       Il Duca lo invidiava: “Ti lamenti tu? Ed io che dovrei dire? Un co-
mico della mia tempra incatenato alla fabbrica di famiglia? A trattare con
i Sindacati? Con le banche? I clienti? Ma ti rendi conto? Con fighe in se-
rie B come il Genoa? Almeno tu sei in serie A!”.

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