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afflictorum”) o il premio Pulizter o chissà, forse, il Nobel per il
            giornalismo macrobiotico”.
               Occorreva festeggiare: “Andiamo, pedibus calcantibus, nella
            nostra trattoria!” urlò al Flatus che già intravedeva futuri successi
            al fianco di quell’omone che si era già incamminato per raggiun-
            gere la  “trattoria ai setteveleni”, sita in un fetido vicolo della città
            vecchia, che veniva evitato anche dai gatti che, per mangiare, pre-
            ferivano recarsi nella vicina Piazza Sarzano.
               Ogni volta che il Rino vi metteva piede si trasfigurava e guarda-
            va subito la lavagnetta dove veniva scritto il menu. Quando era
            priva di cancellature sorrideva, quando intravedeva delle parole,
            come “baccalà in umido” o “trippa con patate”, semicancellate
            gemeva: era arrivato troppo tardi! I migliori piatti erano esauriti!
               Quella trattoria era priva anche di insegna (così il proprietario
            non pagava la tassa sulla pubblicità che tanto era il simbolo della
            società dell’immagine) e per poterla raggiungere bisognava segui-
            re un percorso tracciato su di una mappa segreta nota solo agli
            adepti della setta  “Amici del setteveleni” (per accedere ai locali
            bisognava possedere una tessera scritta in aramaico, che così, risul-
            tando il locale un circolo privato, si risparmiava sulle tasse).
               Capitava spesso che degli avventori si perdessero nella ricerca
            (uno fu rinvenuto, in evidente stato confusionale, in una torre di
            Porta Soprana, un altro nei lavatoi del Barabino).
               Il gestore, nel tentativo di far rintracciare il proprio locale, spa-
            lancava le finestre  (erano feritoie a bocca di lupo) in modo che gli
            “aromi” della cucina potessero indicare la direzione da seguire. A
            causa di ciò, il quartiere era sempre pervaso da intensi odori di bac-
            calà, di trippe, di fritture misteriose che, si diceva, provenissero
            dalla Malesia.
               Il Rino, non disponendo di un buon odorato,  preferiva seguire
            misteriosi segni che aveva avuto cura di tracciare sui muri screpo-
            lati e sulle pietre sconnesse del selciato dei vicoli.
               Accadeva, però, che a volte qualche cane  (chissà se poi era pro-
            prio un cane...) lordasse la strada ed alterasse i segni indicatori. Le


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