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CAPITOLO QUINDICESIMO
Il Duca stava leggendo ad Archiloco una lettera di Paco appena ar-
rivata. Paco usava poco il telefono o la posta elettronica. Era rimasto alle
lettere, come nella loro giovinezza. Erano lettere sempre dense di cose im-
portanti, scritte da un uomo che aveva una grande coscienza. Si trova-
vano nella villa di Albaro del Duca e stavano per pranzare. Dopo sareb-
bero andati allo stadio a vedere una partita del Genoa.
Paco scriveva che, mentre a Ginevra il vertice dello stato spagnolo
inaugurava la Sala Diritti Umani del palazzo delle Nazioni unite, a Madrid
era stata resa pubblica l’ordinanza con cui il giudice Baltazar Garzon ri-
nunciava a proseguire l’inchiesta sui desaparecidos dopo il golpe di Franco
del ’36 contro la Repubblica e durante il regime franchista dal 39 al ’75.
“La Spagna: un paese che 70 anni dopo ha ancora paura di aprire
la fossa di Garcia Lorca, che non si azzarda a riportare in Spagna le tombe
del poeta Antonio Machado e di Manuel Azaña il presidente della Re-
pubblica rovesciato dal sanguinoso golpe di Franco. Entrambi morti in
esilio e sepolti in Francia”.
La lettera terminava con queste considerazioni amare che Paco
aveva voluto condividere con degli amici cui voleva bene e che avrebbero
capito.
“Bisogna rispondere con una lettera come si deve. Deve capire che gli
siamo vicini. Vedi un po’ tu”, il Duca era molto affezionato a Paco.
“Non facciamo prima a telefonare?”
“Ma lo sai com’è fatto Paco… in questi momenti ci vuole una let-
tera. Lui su ogni cosa ci fa un poema. Una volta gli scrissi di una storia
che mi aveva colpito e che avevo letto in un libro di mio padre scritto
in spagnolo. Sai che leggo quando vado in bagno. Era un racconto tri-
ste dal titolo Mi tio Jacinto. Parlava di un torero fallito dall’esistenza squal-
lida che si illumina del sorriso del nipotino…”.
“In italiano è Pepote. È di Laszlo, un ungherese, l’ho letto anch’io
da ragazzo. Un regalo di zia Pallina…”
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