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rino ti avesse fatto un ruttino mentre le baciavi la punta del naso. Ti sa-
resti fatto frate!”.
“A proposito di rutti, ti ricordi lo scherzo che ti abbiamo fatto a Boc-
cadasse? Ho ancora davanti agli occhi la tua espressione: eri esterrefatto”.
“Certo che me ne ricordo, come potrei dimenticare quel rutto che
sembrava un assolo di trombone? Il cameriere impietrito, tu che ti scu-
savi…”.
“Tu che sudavi freddo e che per poco non svenivi…”.
“Mi avete giocato un bel tiro…”.
Zuccherino rideva: “Scrivile queste cose che hai dentro. Ciao, un
abbraccio”.
“E se in questo momento ti fosse scappato un ruttino?”, anche Ar-
chiloco rideva.
“Tu lo avresti scambiato per uno zefiro dell’anima…”.
Archiloco ripensava a quel giorno, allora frequentavano ancora
l’Università di Genova, a Boccadasse dove il Duca corteggiava una loro
compagna di studi che aiutava nel ristorante dei genitori.
I due amici raggiungevano spesso a piedi, provenendo da Albaro,
quell’angolo di Genova che sembrava una cartolina.
Era il giorno dello scherzo ricordato da Zuccherino che vedeva, per
la prima volta, Boccadasse: “Che sogno! Sembra un miraggio sbucato al-
l’improvviso dalla città…”. Era appoggiata alla ringhiera del belvedere. Co-
minciò a leggere, con il suo incerto genovese, dei versi del poeta Edoardo
Firpo scritti su di una lapide: “O Boccadâze, quando a ti se chinn-a/sciortindo
da-o borboggio da çittæ,/s’à l’imprescion de ritornâ in ta chinn-a/o de cazze in
te brasse d’unna moæ”. Restò un attimo in silenzio, poi rivolse una domanda
agli amici. “Cosa vuol dire chinn-a?”.
“All’inizio, se chinn-a vuol dire si scende, poi vuol dire culla”, Ar-
chiloco era nel suo.
“Che versi meravigliosi”, Zuccherino era quasi commossa.
Il Duca, che a Boccadasse conosceva quasi tutti, si lanciò in un’inter-
minabile partita di tarocchi con dei pensionati, tutti tifosi genoani. Erano se-
duti attorno ad una grande cassa in mezzo alle barche. Il socio di gioco del
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