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“Allora prenditela e trattala bene che non n’abbiamo altra… e
poi dammi del tu…”, il comandante aveva indicato la macchina da
scrivere che era dentro ad una custodia appesa ad un palo della
tenda.
“Hai pensato al nome di battaglia?”.
“Valentino, era il nome di mio padre”.
“La staffetta lo salutò abbracciandolo: “Ciao, Valentino, buona
fortuna…”.
“Buona fortuna anche a te, stai attenta…”.
Iniziò così a fare il partigiano furiere a stretto contatto con quel
comandante che lo trattava come un fratello minore. Un
pomeriggio, lo chiamò: “Vieni, andiamo in paese…”. Si stava
facendo la barba.
“Cosa andiamo a fare?”.
“Andiamo a parlare con gli abitanti. Hanno più coraggio loro di
noi… con la loro paura… ci stanno a sentire, ci aiutano, ma ci
hanno chiesto di non scendere armati in paese, di stare attenti alle
spie…”.
Alla riunione andarono solo loro due, disarmati. Prima, il
comandante aveva disposto delle sentinelle per controllare gli
accessi al paese. Gli abitanti proposero la formazione di un
comitato con il compito di raccogliere viveri per i partigiani, da
consegnare con le dovute cautele, evitando così la loro discesa in
paese. Il comandante accettò la proposta e li tranquillizzò. Al
ritorno, era sereno, fischiettava.
Un giorno, salì al distaccamento un professore che era sfollato in
un borgo che si trovava nel territorio di loro competenza.
Compariva, ogni tanto, con un borsone pieno di libri. Fece una
lezione, alla luce di una puzzolente lampada a carburo, sulla teoria
del plusvalore. Parlò anche della lotta di classe. Poi, s’intrattenne
con il comandante e il commissario. Parlarono a lungo. La mattina
dopo, non c’era più.
Quando non era impegnato a scrivere, il ragazzo se ne stava su
un albero a scrutare il fondovalle con un binocolo. Ogni tanto,
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