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all'Internazionale comunista fondata a Mosca nel 1919,
inserendo esplicitamente la rivoluzione e la dittatura del
proletariato nel programma del partito.
Quando però nel 1920 l'Internazionale – ritenendo
imminente una rivoluzione in Europa – pose come
condizione per aderirvi l'espulsione dei socialisti riformisti,
fedele all'idea dell'unità del partito Serrati si oppose. Alla
rivoluzione, disse, «dobbiamo portare quanta più gente
nostra è possibile. Le scissure e i contrasti, se mai, verranno
dopo». La sua preoccupazione era infatti quella di
salvaguardare nella loro integrità «i sindacati, le cooperative,
le municipalità, creati o conquistati con tanto sforzo, istituti
indispensabili per l'opera ricostruttiva». Al congresso di
Livorno del 1921, poi, ribadì le sue posizioni, cosicché ad
uscire dal PSI fu la minoranza guidata da Amadeo Bordiga,
che dette vita al Partito comunista d'Italia.
In tutta Europa, frattanto, ogni tentativo di «fare come in
Russia» era fallito e di fronte all'avanzata di forze reazionarie
l'Internazionale varò la politica del così detto fronte unico,
volta a favorire l'unità delle forze socialiste e comuniste. In
Italia, in particolare, la guerra sociale scatenata dalle squadre
fasciste aveva già duramente colpito il movimento operaio: le
camere del lavoro, le cooperative, i comuni socialisti ecc., per
la salvaguardia della cui unità Serrati si era battuto.
La svolta dell'Internazionale e la politica del fronte unico
non posero comunque fine ai contrasti all'interno di un
movimento ormai sconfitto. Fu questo il periodo più duro e
difficile della vita di Serrati, a cui peraltro l'ostilità nutrita nei
suoi confronti dai comunisti non impedì di scrivere alla fine
del 1922: «Dopo il trionfo della rivoluzione in Russia i
proletari di tutti i paesi hanno una patria.. Noi sentiamo che,
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