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affrontare il problema del potere.
   L'aspetto a lungo più discusso delle sue posizioni del

dopoguerra fu il suo unitarismo e quelle critiche colpivano in
qualche misura nel segno perché l'unità di riformisti e
massimalisti limitò l'azione degli uni e degli altri. Non a caso
la stessa disponibilità di Filippo Turati e dei suoi compagni ad
allearsi con le forze liberaldemocratiche per contrastare il
fascismo giunse troppo tardi.

   Con tutto ciò, la ricerca storica ha da tempo fatto giustizia
di una visione del 1919-20 come occasione rivoluzionaria
mancata. Quello che a lungo era stato interpretato come un
biennio rosso fu infatti tutt'altro che monocromo. Una
violenza antipopolare e antisocialista ad opera degli apparati
dello Stato precedette in realtà le lotte del dopoguerra.
Quanto agli industriali, molto rafforzati dai superprofitti
bellici, essi disponevano di ampi margini per ammortizzare
le vertenze del biennio e passarono ben presto all'offensiva.
La stessa occupazione delle fabbriche del 1920 fu originata
dall'intransigenza degli imprenditori, decisi a ridimensionare
il movimento operaio e propensi a instaurare uno "Stato
forte" che ripristinasse l'ordine. Più o meno lo stesso può
dirsi del resto per tutta l'Europa, ciò che però l'Internazionale
comunista comprese troppo tardi.

   In definitiva, dunque, a me sembra che sia una condanna,
sia una difesa dell'opera di Serrati fossero entrambe fuori
luogo e debbano lasciare il passo – come è stato fatto da
tempo negli studi storici – a una visione più articolata e
complessa. Con buona pace di un'espressione corrente come
quella del «tribunale della storia», del resto, lo storico non è
un giudice, non assolve e non condanna, ma si limita a
interpretare il passato.

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