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col suo trionfo, trionfano i lavoratori di tutti i paesi e che il
di lei insuccesso sarebbe la disfatta del proletariato
mondiale».
Poco prima egli aveva infine accettato la scissione dai
riformisti contro la quale si era battuto fino ad allora. Non
per questo la fusione fra PSI e PCd'I decisa al IV Congresso
dell'Internazionale poté avvenire. Vi si oppose infatti nel
Partito socialista una maggioranza guidata da Pietro Nenni,
cosicché ad esserne espulsi furono i così detti
terzinternazionalisti guidati da Serrati e da Fabrizio Maffi,
che infine entrarono nel partito comunista nel 1924. Nel suo
nuovo partito Serrati divenne membro del comitato centrale
e vi proseguì il grande impegno a cui aveva votato tutta la sua
vita finché nel 1926, a soli 53 anni, fu colpito da una morte
prematura.
Da allora, per molti decenni, la sua figura venne
interpretata un po' come il simbolo del fallimento del così
detto «biennio rosso» del 1919-20, di cui gli vennero a lungo
addebitate le maggiori responsabilità. Solo negli anni
settanta si assisté infatti a una sua rivalutazione.
Che alcune di tali responsabilità Serrati le portasse sulle
sue spalle è indiscutibile. Formatosi all'interno del marxismo
della fase prebellica, secondo il quale la rivoluzione sarebbe
stata conseguenza dell'esplodere delle contraddizioni del
capitalismo, come molti altri egli non comprese la profondità
della svolta storica segnata dalla guerra. «Noi, marxisti –
scrisse –, interpretiamo la storia, non la facciamo e ci
muoviamo, nei tempi, secondo la logica dei fatti e delle
cose». La formula che aveva usato nel 1919 per esporre a
Lenin il suo punto di vista («né colpi di mano, né soverchie
incertezze» ) copriva in effetti una impreparazione ad
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