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“Non ho avuto il coraggio… tanto… noi ce ne andremo… chissà
se lo vedrò ancora…”.
“Noi chi?”.
“Io e la mia famiglia… di più non ti posso dire…”.
“Allegria! Allegria: Maramao, Maramaooo”, un loro amico
cercava di tenere su il morale.
Il ragazzo dagli occhi vivaci era molto amico di Gerardo, anche
se era un fascista. C’era in lui qualcosa di buono, nonostante tutto.
Con lui non riusciva a litigare, neanche quando parlavano di
politica, delle rovine causate dal fascismo. C’era in lui qualcosa
d’indecifrabile, di malinconico, così lontano dalle fanfare fasciste.
Non poteva soffrire i tedeschi. Amava il jazz. Eppure, lui era
fascista, anche dopo l’otto settembre. Prima, quando anche in
università erano stati distrutti i simboli del ventennio e sbeffeggiati
i professori dai trascorsi in camicia nera e gli studenti attivisti
GUF, lui era stato lasciato in pace.
Un giorno, sulla Gazzetta del Popolo apparve la notizia che un
giovane soldato era precipitato dal terrazzo di un palazzo del
centro. Non era ben chiaro cosa fosse successo. Almeno così
diceva il giornale.
Ma i suoi amici sapevano che si era suicidato. Lo aveva urlato la
madre, distrutta dal dolore, al funerale.
Gerardo era ritornato a Torino in permesso e aveva chiesto di
Lauretta. Non l’aveva trovata nel palazzo dove abitava. I vicini gli
avevano detto che la famiglia si era trasferita.
Poi, da non si sa chi, aveva saputo che la famiglia di Lauretta
faceva parte del gruppo di ebrei che erano stati trucidati da SS
tedeschi sul Lago Maggiore. I loro corpi erano stati gettati nel lago.
Non era vero. Lauretta, con la famiglia, era riuscita a rifugiarsi in
Svizzera, ma lui non lo sapeva.
Quel giorno, al funerale, il ragazzo dagli occhi vivaci e la ragazza
dalle fossette si tennero per mano senza parlare. Pensavano,
entrambi, la stessa cosa.
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