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Si erano rivisti in Riviera, nell’albergo dell’amica. Avevano fatto
lunghe passeggiate. Erano stati a vedere la galleria del treno, a
salutare gli amici. Andavano in un cinema all’aperto,
affollatissimo, e a ballare in un locale dove suonava l’orchestrina
di Cola. Facevano gite in barca, raggiungendo un isolotto pietroso.
Poi, erano rientrati a Torino con l’auto di lui. In quei giorni
trascorsi insieme, non avevano, volutamente, parlato di futuro, di
politica, di fabbriche. Erano stati insieme e tanto era bastato.
A Torino, la portò in un ristorantino a Porta Palazzo. Poi,
andarono al mercato a salutare un amico del padre dell’uomo che
non era più un ragazzo dagli occhi vivaci.
“E’ stato un quasi collega di mio padre. Esercita a Porta Palazzo,
tra le bancarelle del mercato”.
“Un quasi collega? Tra le bancarelle del mercato?”.
“E’ un callista. Mio padre tenne con lui una celebre ‘Lession ëd
meisin-a’ all’università, ai tempi della goliardia. Fu allora che
divennero amici”.
Lo videro, sotto i portici. Stava curando il piede, appoggiato su
un puffo di velluto, di una paziente seduta su una vecchia poltrona.
Un grande cartello indicava unguenti miracolosi, tisane e pozioni
curative, ricette per quasi tutti i mali. Molto reclamizzata una
lozione per i capelli. C’era anche una rima scritta in rosso: “Andare
di corpo e piedi sani fan sereno il tuo domani”.
“Evnì dal re dij quaj… venite dal re dei calli. Basta seufre, basta
quaj, duron, porèt. Basta soffrire, basta calli, duroni, verruche. Ci
pensa il re ai vostri calli!”, urlava ed intanto “trattava” il piede
della paziente.
“Madama so pé a lé na via crucis”, a quel punto, vide il figlio del
suo amico medico di un tempo: “Varda sì! Ël fieul ëd mè amis
medich, lë scritor!”, l’aveva abbracciato.
Ci furono le presentazioni: “E’ la tua fidanzata? Complimenti!
Che donna!”.
“Siamo amici…”, le aveva dato un buffetto su una guancia.
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